In questa intervista, Ronit Mandel Abrahami esplora l’esperienza di Angela Delsanto, che offre una testimonianza personale e profonda sull’impatto del Metodo Ronit®. Attraverso il suo racconto, Angela ci guida in un viaggio di rinascita e scoperta interiore, dove il movimento non è solo un atto fisico, ma un potente strumento per superare i limiti e riconnettersi con sé stessi. Questa conversazione diventa un’occasione per riflettere sul potenziale trasformativo del metodo e sulla sua capacità di adattarsi alle unicità di ogni individuo, accompagnandolo in un percorso di consapevolezza e crescita.
Spesso ci troviamo a vivere il corpo come un limite o una fonte di conflitto, soprattutto nei momenti di difficoltà. Eppure, esiste una dimensione più profonda, in cui il corpo diventa veicolo di ascolto, trasformazione e rinascita. In che modo il Metodo Ronit® riesce a intrecciare corpo, mente ed emozioni per guidarci in questo viaggio unico e personale?
«La peculiarità di questo metodo risiede nella sua natura sartoriale: contribuisce a creare una versione unica della persona, cucendo un abito su misura che ne rispetta e valorizza le peculiarità. In pratica, il metodo si evolve insieme alla persona, momento per momento, seguendo il suo percorso. Non si concentra unicamente sull’aspetto biomeccanico del corpo, ma abbraccia anche la sfera emotiva ed esperienziale. Si sviluppa progressivamente, adattandosi alle esigenze del momento, e lascia una traccia profonda.
Personalmente, ho affrontato un grave problema di salute che mi impediva di muovermi. In quel periodo, ho cercato di richiamare alla mente il movimento così come mi era stato insegnato da Ronit: un movimento minimale, anche solo immaginato. Ho imparato a visualizzare il mio corpo in movimento, anche quando non potevo praticarlo fisicamente. Quando finalmente sono tornata a muovermi, il metodo mi ha aiutata a superare la paura del movimento e a non lasciarmi condizionare dalle resistenze.
Nonostante pratichi il metodo da molto tempo, non è sempre facile. Ogni blocco superato rappresenta una piccola conquista, ma spesso si incontra un nuovo limite. Questi ostacoli possono derivare da periodi di minore allenamento, da costruzioni mentali o da stati emotivi che generano conflitti interiori, riflettendosi inevitabilmente nel corpo e nel movimento.»
Puoi specificare quale tipo di problema hai avuto, che tipo di mobilità hai perso e come sei riuscita a riacquistarla?
«Avevo avuto un problema serio al midollo, dovuto a tre ernie cervicali, una delle quali comprimeva il midollo stesso. Questa situazione mi provocava dolori terribili e impediva il movimento della parte destra del corpo, soprattutto la parte superiore. Anche se riuscivo a camminare, ero completamente piegata e storta, perché non riuscivo a muovere il braccio destro. A quel punto, il neurologo mi ha detto che c’era il rischio di dover affrontare un intervento molto delicato, ma prima volevamo tentare un trattamento. Mi ha quindi prescritto una terapia molto intensa, anche per il dolore, con venti giorni di completo riposo a letto. Passavo le giornate così, immobile, con la paura costante di non poter più tornare alla vita normale. Anche se avessi affrontato l’intervento, il recupero non era affatto garantito.
Psicologicamente è stato un periodo molto pesante, invalidante sotto ogni aspetto, anche sul piano economico, poiché ho un’attività commerciale che richiede movimento e forza, con sollevamento di pesi. Questa situazione mi ha insegnato però a non limitare la coscienza del corpo ai soli momenti di allenamento. Ho imparato a portare l’attenzione corporea nella mia quotidianità, con ogni piccolo movimento. Tuttavia, in quel periodo, quando ero costretta a letto a guardare il soffitto, mi trovavo spesso sopraffatta dalla frustrazione. Mi tornavano in mente i ricordi di quando ballavo, di quando danzavo per spettacoli. Guardavo video delle mie esibizioni e ascoltavo musica che mi piaceva, immaginandomi ancora in movimento. Mi sono allora ritornate in mente le parole di Ronit, quando diceva che c’è una potenza anche nel pensiero del movimento, e che immaginare di muoversi ha in sé una forza potenziale che può contribuire al recupero.
Quando, dopo un mese, sono tornata dal neurochirurgo, abbiamo constatato che l’intervento non era più necessario. Dovevo però riprendere il movimento con molta cautela, iniziando da esercizi leggeri per recuperare tono muscolare e agilità, senza sovraccaricare la colonna cervicale. Così ho cominciato piano piano con esercizi moderati, movimenti piccoli e lenti, cercando di superare anche la paura di muovermi. A poco a poco, ho fatto piccole conquiste, ogni miglioramento mi dava speranza. Quando sono tornata per una visita successiva, il neurochirurgo è rimasto colpito dal recupero che avevo raggiunto in così poco tempo, data la gravità del mio quadro clinico.
Con il tempo e con attenzione, sono riuscita a riprendere forza anche nella zona cervicale, integrando anche esercizi più complessi. Questo percorso mi ha portato, lentamente ma con costanza, a ritrovare la disponibilità e sicurezza nel movimento, fino a non avere più problemi.»
Me lo ricordo bene, come abbiamo lavorato! Ti ho fatto anche stare 20 secondi col collo in su, ti ricordi?
«Sempre piccoli tentativi… a volte li temevo e non provavo nemmeno, altre volte sentivo che non era ancora il momento. Poi, però, piano piano tutto si è incastrato.»
Ti ricordi un po’ quello che abbiamo fatto? Molti isolamenti, vero? Un lavoro molto minimale, connettendo varie parti del corpo.
«Molto minimale, e poi mi ricordo di aver inizialmente ricercato questa connessione tra una parte e l’altra del corpo, anche le più remote tra loro. Era importante ricreare questa conduttura energetica, questa biomeccanica che esiste, ma che alle volte è molto trascurata. Sì, anche perché bisogna lavorare, e quindi questo movimentare pesi, che fa parte del mio lavoro, doveva integrarsi con il mio stato di salute. Il mio stato di salute doveva essere all’altezza del lavoro che devo svolgere. È stato un lavoro simultaneamente di recupero e di rielaborazione, con una disponibilità a eseguire i movimenti della mia quotidianità, ma con una coscienza e una presenza diverse, sia verso me stessa che verso il mio corpo.»
E infatti, da come parli, si capisce che il lavoro che facciamo tocca tanti aspetti, come la nostra psicologia, le percezioni e l’emotività. Nella Cabala, ci sono cinque stadi dell’animo; tre di questi appartengono alla vita terrena e parlano delle emozioni, del corpo, della linfa vitale e dell’energia vitale. Pensi che siamo riusciti a toccare un po’ tutto questo? Abbiamo lavorato a livello animico? L’ho detto in modo molto semplice, ma in realtà è molto più complesso…
«È un lavoro che hai sempre fatto anche attraverso il tuo modo di insegnare danza, che è stato il mio primo grande passo per riappropriarmi di me stessa. Tuttavia, con il metodo specifico legato all’attività fisica, devo dire che questo concetto del Pardes ha così tanti gradi di consapevolezza che, a volte, quando lo spieghi, sembra incredibile. Ogni volta che si conquista una coscienza in più, sembra di averla acquisita, come se fosse stata messa in tasca e fatta propria.
In realtà, nel momento in cui la fai tua, è come se dovessi scendere ancora o salire ancora. La consapevolezza a livello corporeo l’ho testata, soprattutto un po’ di tempo fa, quando mi sono accorta di fare fatica a respirare. Intendo dire che avevo difficoltà a ottenere una respirazione profonda, ma nel senso energetico, come se il respiro non fosse solo una funzione polmonare, ma qualcosa di più ampio.
Questa percezione l’ho avuta in modo particolare durante una lezione, e attraverso il lavoro sul respiro sono riuscita a gestire meglio un periodo che per me era davvero difficile e opprimente. Questa pesantezza a livello personale che stavo vivendo la sentivo proprio nel corpo; era come se il mio respiro fosse condizionato da una sorta di gabbia che non mi permetteva di espandermi. Non riuscendo ad espandere il respiro, tutto il corpo ne risentiva, inteso non solo come corpo fisico, ma come un’entità più ampia che coinvolge anche l’aspetto emotivo ed energetico.»
Infatti lo è. La cosa che mi piace è che le mie allieve che hanno scelto di fare questo lavoro, alcune vengono già come te e altre, da 25/26 anni, se non di più. È piuttosto raro, non è una cosa così comune. Spesso, chi si allontana lo fa perché percepisce questo lavoro come troppo complesso e impegnativo. Io, invece, penso che, pur essendo complesso, sia anche incredibilmente bello.
È un impegno verso se stessi, qualcosa che abbiamo il dovere di mantenere, ma è anche un diritto poterci dedicare a noi stessi. Chi sceglie di farlo spesso mi dice che è l’unico momento in cui riesce davvero a svuotare la mente. Quando lavorano con me, sembra che lascino fuori il mondo per entrare nel loro mondo interiore, senza contaminazioni. Ultimamente, molte persone me lo stanno confermando. Tu cosa ne pensi?
«È una dimensione molto particolare che credo possa avvenire solo quando ci si affida a un maestro. Affidarsi a un maestro potrebbe sembrare comune, visto che molte persone seguono insegnanti per lungo tempo. Ma spesso si tratta di una ripetizione meccanica, più o meno accurata, di routine di movimento acquisite. La cosa interessante del lavoro con te è che non è mai stato fine a se stesso. Il primo passo verso la mia liberazione dalla staticità personale l’ho sperimentato proprio attraverso la danza, durante una lezione che ricordo benissimo, risalente a molti anni fa.»
Penso di ricordarmi, quella con gli occhi chiusi?
«Sì, era poco dopo che avevo iniziato, insomma non so se erano passati un paio d’anni. È stata una magia, e ho capito che la danza era, “una scusa, una chiave per poter accedere a qualcosa di più profondo”. Ma era una chiave per come tu intendevi la danza, per come la concepisci: un fluire energetico in connessione bidirezionale, sia con noi stessi che con ciò che ci circonda. È un viaggio meraviglioso, e il tuo metodo, definito e approfondito nel corso degli anni, è andato ancora più in profondità e in elevazione.»
Credo che un vero ‘metodo’ debba essere capace di adattarsi a qualsiasi situazione: che si tratti di un percorso di vita, di danza, di ginnastica o della quotidianità. Altrimenti, può davvero definirsi un metodo? È un approccio che mira a trasmettere una conoscenza capace di trasformarsi in uno stato di coscienza. Come hai detto, non si tratta di andare verso il basso, ma di elevarsi, raggiungendo un livello in cui la materia si alleggerisce.
«Sì, ma questo è proprio il tuo metodo, perché ci sono molti metodi in circolazione, ma pochi riescono a toccare queste dimensioni così molteplici della vita di un individuo.
In effetti, può anche provocare profonde crisi, perché porta alla luce il modo in cui viviamo e percepiamo la vita, che spesso è intrisa di drammaticità. E per questo, il viaggio interiore non è sempre meraviglioso. È frustrante scontrarsi con i propri limiti, le proprie sovrastrutture e i condizionamenti. Dimentichiamo il fatto che materia e spirito sono strettamente interconnessi. Spesso ci autoinfliggiamo condizionamenti, anche quando a livello fisico non esistono. Talvolta, quelli spirituali ed emotivi sono solo illusioni che ci creiamo o che pensiamo di avere.
Lavorando con questo metodo, però, si cominciano a scardinare barriere interiori, aprendo nuove vie di connessione tra ciò che siamo spiritualmente e fisicamente. Questo processo, inevitabilmente, si scontra con la realtà circostante, creando un complesso problema da affrontare, quasi un’equazione algebrica da risolvere o, almeno, da gestire. Tuttavia, essendo un metodo strutturato, permette di farlo. Ogni piccolo passo conduce a conquiste significative, intervallate da momenti di apparente immobilità che, in realtà, rappresentano fasi di maturazione e crescita.»
Sì, però una cosa bella è che anch’io continuo a evolvermi. Di conseguenza, facilito sempre di più la vostra vita man mano che proseguo nel mio percorso.
«Ah sì, sicuramente.»
In ebraico la radice del verbo ‘imparare’ è la stessa della radice del verbo ‘insegnare’ (למד). Questo legame esprime un concetto profondo: non esiste un maestro infallibile, privo di errori; credere il contrario è una grande illusione. Piuttosto, esistono persone che condividono la propria esperienza di coscienza, contribuendo a un processo continuo di evoluzione. In un mondo dove ogni esperienza deve crescere attraverso la consapevolezza, è essenziale prendere coscienza di ogni dettaglio, perché è lì che risiede il vero apprendimento.
“Amiamo realmente gli altri come amiamo noi stessi”? Siamo tutti connessi, parte di un’unica unità. Animali e piante rappresentano nostri stati di coscienza e riflettono questa connessione. Apriamo i nostri cuori e impariamo ad amare, perché tu sei parte di me e io di te. Un cuore aperto accoglie e vive profondamente.
Cosa ne pensi?
«È vero. Quando il cuore si apre e sente profondamente, sviluppa una sensibilità così intensa da permetterci di percepire anche la sofferenza con la stessa profondità. Una delle conquiste più importanti, a mio avviso, è imparare a non lasciarsi sopraffare da questa sensibilità, mantenendo il cuore aperto e coltivando l’amore verso gli altri.
Anche se non sempre porta risvolti positivi, sentire l’amore per gli altri e percepire la loro sofferenza, può diventare un peso difficile da gestire. Solo attraverso questa disponibilità verso l’amore, sostenuta da un cuore che pulsa libero e senza condizionamenti, riusciamo a gestire meglio il ‘rumore’ del mondo e a lavorare con maggiore consapevolezza su un equilibrio in mezzo a tanta complessità.»
L’unità è l’unica verità. È la grande sfida dell’umanità: trovare integrità dentro di noi e stabilire una connessione con gli altri. Osservando la società, sembra che l’individualismo abbia preso il sopravvento, come se ci fossimo dimenticati che chiunque incontriamo è una parte di noi, un pezzo del nostro stesso puzzle.
Questo senso di unità dovrebbe abbracciare anche la natura e gli animali, guidandoci verso il rispetto, l’empatia e la capacità di percepire il dolore anche in ciò che sembra lontano o diverso da noi. Persino il gesto di strappare un fiore con brutalità gli infligge una forma di sofferenza. Riconoscere che la materia è un’illusione e comprendere che tutto è energia, che tutto vibra e tutto è vivo, persino un sasso, trasforma profondamente la nostra percezione del corpo e della realtà.
Quanto diventa importante, allora, lavorare sulla nostra linfa vitale?
«È estremamente importante, perché quando la linfa vitale si affievolisce, tutto inizia a bloccarsi, sia fisicamente che emotivamente. In questo periodo, ad esempio, mi sento sopraffatta da una serie di incombenze e sto facendo appello a ciò che ho imparato con te per affrontare questa fase. Sento che il mio corpo sta quasi implorando di essere allenato, e anche il mio stato d’animo ne sta risentendo.
Quando riesco a mantenere una costanza nell’allenamento – intesa però secondo i parametri del tuo metodo, non un allenamento generico, perché è davvero un’esperienza completamente diversa – si attiva una circolazione energetica che supera ogni forma di egocentrismo, ambizione o competitività. È una connessione più profonda, che restituisce equilibrio e vitalità non solo al corpo, ma a tutto il nostro essere.
È una ricerca del proprio benessere attraverso l’equilibrio di molteplici componenti complesse, che in qualche modo liberano la mente, proprio come una meditazione. È come aprire le finestre al mattino per far entrare aria fresca: all’improvviso la casa sembra più viva, energizzata, pulita e sana. Lo stesso accade nei diversi livelli del nostro corpo dopo un allenamento con il tuo metodo, dove ogni cosa si rigenera e ritrova la sua armonia naturale.»
Grazie, Angela, hai detto cose importanti… Certe parole fanno riflettere, arrivano proprio dove devono arrivare. Anche io imparo molto da quello che mi raccontate; è un cammino condiviso.